Istanbul: è solo questione di malinconia.

A dicembre 2015 ho trascorso dieci giorni a Istanbul dormendo nell’antico quartiere di Balat. La città mi ha stregata e il giorno che sono partita mi sono promessa di tornarci in Primavera. Ma così non è stato perché a distanza di soli dieci giorni dal mio ritorno in Italia, c’è stato un attentato contro turisti e civili, il primo di una lunga serie. Questo post è il ricordo indelebile del mio viaggio a Istanbul, quando  ancora credevo che nessuno avrebbe mai osato profanare la sua magia.

Istanbul sul traghetto vista moschea di Solimani

È passato poco più di un anno dal mio viaggio a Istanbul, nevicava tanto, proprio come in questi giorni qui in Italia. Un anno intriso di orrore che ha trasformato il volto e gli orizzonti di una città che ho adorato oltre ogni aspettativa. Inconsapevolmente ho assistito ai suoi ultimi giorni di serenità apparente. Avvolta nel bianco candido della neve sembrava in pace. E io credevo che nessuno avrebbe mai osato profanare la sua magia.

Istanbul dal Ponte di Galata
Un traghetto sotto il ponte di Galata
Istanbul, uomo cammina nella neve a Sultanahmet
Un uomo lavora nonostante la neve a Sultanhamet.
Istanbul, palazzo Topkapi
Un’ala del palazzo Topkapi tra la neve

Istanbul sotto la neve


Il giorno che sono partita da Istanbul già fantasticavo su quando ci sarei tornata in Primavera.


L’avrei rivista quando le ore di luce sono tante e il vento da sud ovest diventa tiepido. Soffia sempre il vento a Istanbul ma quello dicembre è gelido, carico dell’umidità del mare. Già mi vedevo a maggio attraversarla in maniche corte, avrei camminato senza meta da oriente a occidente, su e giù dai traghetti sul Bosforo, gli unici capaci di farmi sentire sospesa tra due civiltà. Il tramonto sul Corno d’Oro non l’avrei più visto alle quattro e quaranta del pomeriggio battendo i denti sulla terrazza di un bar. Sarei andata fino a Ortaköy, nella piazzetta che non ho ancora visto, quella con tanti piccoli bar. Con lo sguardo rivolto a Oriente avrei aspettato l’ora blu, quella che preferisco, quella che trasforma ogni luogo in un paesaggio delle Mille e Una Notte.

D’inverno, invece, sullo schienale delle sedie, trovi piegato un plaid di pile, fanno di tutto per convincerti che anche con 5 gradi puoi goderti uno Spritz all’aperto come se fosse maggio. Al pari di ogni turista che passa da Istanbul a dicembre, anche io mi sono seduta a un tavolo di un bar con la terrazza affacciata sui tetti, ho ordinato un tè alla mela e mi sono ubriacata con il canto dei muezzin; lento e profondo evapora dalle viscere della città, un lamento che dalla fermata dei traghetti di Eminönü, stracolma di umanità, sale su, lungo le strade ripide e gelide di Sultanahmet. Raggiunge le moschee di Solimano e di Fatih fino a ricoprire tutta la città. Caldo come la coperta che stringevo sulle gambe quella sera.

Istanbul vista dal Sefa-i Hürrem Cafe Restaurant a Sultanahmet
La moschea di Solimano vista dal Sefa-i Hürrem Cafe a Sultanahmet.

A maggio, a Istanbul, sarei salita sul roof-top di quello stesso caffè dove mi trovavo il 26 dicembre 2015, un posto scoperto per caso tra i dedali a Sultanahmet, ai confini con l’antico quartiere di Fatih. Si trova in fondo a una strada stretta e in discesa, la riconosci perché è l’unica attraversata da fili invisibili da cui pendono una pioggia di lanterne colorate.

Ho ritrovato il suo nome per caso cercando in rete “Sefa-i Hürrem Cafe Restaurant”, per chi volesse andarci. Sembra un dozzinale locale acchiappaturisti senza alcun fascino, in realtà la sua attrattiva è solo la terrazza sul tetto pubblicizzata bene in vista su un cartello all’entrata; e meno male, la meraviglia che si cela 3 piani più su è insospettabile guardando lo squallore dell’ingresso. La terrazza del bar domina tutti i tetti e le moschee di Istanbul: Solimano a sinistra, la moschea Blu a destra, il Corno d’Oro di fronte, d’oro come le luci dei traghetti quando scende la sera. Il servizio è abbastanza malefico ma credo che la vista dal “Sefa” sia la più bella di tutta Istanbul.


Quasi tutte le città ne ricordano vagamente un’altra, Istanbul invece non somiglia a nessuna.


Non solo perché è l’unica ad avere un pezzo in Asia e un pezzo in Europa, l’incanto viene dalla sua posizione naturale: un immenso anfiteatro di case, palazzi e moschee che sale e scende dalle colline; da ovunque la guardi puoi vedere l’acqua che scende verso il Mar di Marmara e fino al Mar Nero; e anche se non la vedi sai che l’acqua è poco lontana.

Istanbul, il Bosforo 550x370 pxl
Una barca attraversa il Bosforo diretta sul versante asiatico.

Il lento andare dei traghetti sul Bosforo è una poesia, un’ipnosi per me che adoro i corsi d’acqua. Mi calmano e mi provocano un vago stato di trance. La gente di Istanbul usa le barche con la stessa naturalezza con cui noi saliamo sull’autobus e la vita sull’acqua scorre tranquilla al ritmo del moto perpetuo di queste chiatte bianche; dall’alba fino a sera tardi portano a lavoro e riaccompagnano a casa le persone. Il loro andare si conclude sempre con un corteo di gabbiani che le seguono come un’ombra, sulla scia delle molliche che forse qualcuno lancerà dal ponte.

Traghetto a Istanbul con bandiera e gabbiani


L’aria a Istanbul è intrisa di malinconia ma ho pensato che qui per un po’ ci avrei vissuto.


Ho già ampiamente dichiarato la mia devozione per i grandi corsi d’acqua ma questa è una città in cui la calma del Bosforo ti entra dentro. Penso che chi vive a Istanbul considera la vita sull’acqua un privilegio acquisito eppure non per questo la ama di meno.  Nel tragitto tra una sponda e l’altra, molti dei passeggeri rimangono sul ponte del traghetto. Seduti sulle lunghe panche di legno bianco pensano, si fanno i selfie, si baciano, telefonano. Ma indipendentemente da cosa fanno sono tutti rivolti al mare e stringono tra le mani una bevanda calda. Su ogni traghetto infatti c’è un piccolo bar e un cameriere che passa anche fuori con caraffe di tè caldo, caffè e Salep. Il Salep è in assoluto la mia bevanda preferita: un preparato di latte, zucchero e farina di orchidea che cresce solo negli altipiani di Maras, in Turchia.

Istanbul, barista sul traghetto davanti al ponte di Galata

La prima volta che l’ho assaggiato ero su un traghetto appunto, a vederlo nella tazzina trasparente a forma di giglio ero certa che fosse tè allungato con latte. Faceva un freddo cane ma il Salep bevuto guardando Istanbul dall’acqua, ha creato in me una specie di incantesimo. Da quel momento l’ho cercato ossessivamente in ogni bar.

Ha un sapore inebriante e una consistenza simile alla cioccolata calda. Se non è già in fase di cottura, devi aspettarlo almeno un’ora, è il tempo necessario per prepararlo, deve bollire per quasi 60 minuti prima di essere servito. Per rendere le cose più difficili ha anche un costo notevole per essere in Turchia: circa 4 euro a tazza, questo perché la farina di orchidea ha un costo elevato visto che è in estinzione, tanto che il governo ne ha proibito l’esportazione e forse presto ne verrà vietato il consumo.

Istanbul, un bar di Balat che serve Salep
Il bar di Balat dove mi sono rifugiata per bere un ultimo Salep.

Mi sto chiedendo qual è il vero motivo che mi spinge a scrivere oggi questo post, è uno delle tante cose che volevo fare senza sentirne una reale urgenza. C’entra la nostalgia e il senso di frustrazione per non poterla più rivedere, almeno finché l’angoscia che mi hanno provocato il susseguirsi di attentati, non lasci il posto al fatalismo.  La sensazione che il terrore sia ufficialmente entrato nella mia vita turba me come probabilmente tutti coloro che mi stanno leggendo.

Ma non voglio chiudere con un’emozione negativa, Istanbul rimane magica e come ogni momento storico è passeggero e sono certa che le cose cambieranno.

Ci tornerò malgrado l’hüzün, la tristezza di cui parla Pamuk quando nei suoi libri descrive lo spirito di Istanbul “un sentimento che non solo paralizza gli abitanti di Istanbul”, scrive Pamuk ” ma che rappresenta anche una specie di licenza poetica che giustifica la loro fuga”.

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